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9 dicembre 2009.

Paglia, legno e fantasia. La rinascita è ecologica.

ABRUZZO Nella frazione di Pescomaggiore il sisma ha minacciato la sopravvivenza del paese. Ora un’idea di ricostruzione alternativa lo riporta alla luce. Con un basso impatto ambientale e l’aiuto dei cittadini.

Dina Galano

La ricostruzione dopo il terremoto del 6 aprile è un’operazione sofferta, complicata da regimi autorizzatori e pluralità di interessi, pubblici e privati. Scegliere come farla, però, è un esercizio di libertà. A Pescomaggiore, mille metri sul livello del mare, frazione del comune del L’Aquila, 45 abitanti, quella scelta è diventata un impegno quotidiano, condiviso con la popolazione del luogo e suggellato da un patto non scritto con il territorio.

Qui il sisma ha prodotto i suoi danni evidenti, come in tutte le zone del cratere aquilano. Ma la reazione i cittadini, di fronte all’inagibilità delle case del centro, si è trasformata in ostinata determinazione: senza attendere i tempi lunghi della provvisorietà a vita promessa dal piano C.a.s.e., ha deciso di fare altrimenti.

Il progetto si chiama Eva (Eco villaggio autocostruito), prevede la costruzione di sette unità abitative destinate ad accogliere ventidue persone ed è tutto orientato a criteri di antisismicità, sostenibilità ambientale e risparmio, non soltanto energetico. Ma gli ingredienti che ne fanno una ricetta unica nel suo genere, già in sé poco frequentato, prescindono dai dati progettuali e dipendono dallo spirito dei suoi esecutori materiali. Dai residenti del luogo, passando per i donatori, dagli architetti fino alla schiera di volontari che stanno offrendo il proprio contributo, il cantiere di Pescomaggiore è un continuo via vai di persone che hanno intimamente sposato un’idea: quella di ricostruire partecipando. A partire dal terreno che, infatti, è stato ceduto dagli originari proprietari al Comitato per la rinascita di Pescomaggiore, una realtà precedente al sisma che nasceva per arginare l’esodo dal piccolo borgo, promuovendo attività in loco gestite collettivamente.

Poi, con il terremoto è cambiato tutto. Oltre la casa si è perso il lavoro e l’isolamento ha minacciato la sopravvivenza stessa del piccolo centro. Piero, che fa il contadino ma – precisa – «sono stato per una vita muratore e anche fabbro », dalla sua terra non si separa. Vive in una roulotte a metà tra il borgo e il cantiere, tra il passato e il futuro; qui sta costruendo con le sue mani la casa dove presto andrà a stare con la sua famiglia. È il primo ad arrivare la mattina e l’ultimo ad andare via. «Perché Pescomaggiore deve rinascere», dice. La sua casa forse riuscirà a essere finita, almeno nelle sue componenti essenziali, entro l’arrivo della neve. I ragazzi che lavorano ogni giorno nella spianata riconoscono che il ritardo dell’inverno gelido è stato una gran fortuna. Isa e Ludo, Dario, Filippo e gli altri dovranno attendere ancora. «Mi piace sottolineare », dichiara Filippo Tronca che ha lasciato la casa terremotata a Goriano Valli, «che questo non è progetto “alternativo”. La sua realizzazione dipende dalla volontà individuale di persone, soprattutto giovani, che hanno scelto di recuperare tra mille pressioni il proprio rapporto con questa terra».

Il cantiere si è aperto il 17 agosto, ma è dal 2 giugno che Paolo Robazza e Fabrizio Savini, insieme a Caleb Murray Burdeau, esperto in bioarchitettura, coltivano l’intenzione di costruire un progetto in balle di paglia. «Dopo soltanto venti giorni abbiamo conosciuto i ragazzi del Comitato per la rinascita di Pescomaggiore», racconta Paolo. «La sintonia è stata istantanea perché c’era la nostra voglia e il loro bisogno di portare avanti un progetto simile». I due architetti, che hanno dato vita quest’anno al Beyond Architecture Group, una società di progettazione che sembra suggellare la loro amicizia, seguono i lavori quotidianamente. «Fin dall’inizio volevamo prendere anche uno zoccolo duro di operai che portassero avanti il cantiere», confida Paolo, «Ma il progetto è totalmente autofinanziato e, soprattutto in origine, non c’erano soldi. Così la nostra si è trasformata in una presenza costante e obbligatoria, sennò non si andava avanti. Siamo stati architetti, con l’esigenza di rimodellare, sistemare e ripensare il progetto ogni giorno. Siamo manovali. Curiamo l’organizzazione dei volontari, che porta via una valanga di tempo, la comunicazione all’esterno, la forniture dei materiali e la gestione economica. La mia Volvo l’ho usata come un camion per i trasporti. Tutti questi ruoli concentrati in una giornata ci costringono a stare sempre di corsa. Abbiamo fatto un lavoro intenso, senza mai staccare ». Il risultato delle energie impiegate sono quattro case quasi finite, un gruppo unito e la prospettiva di un luogo da condividere.

Stare in cantiere con i futuri fruitori e con persone arrivate da tutta Italia per dare una mano ha costruito «un clima di comunità impensabile in un cantiere». La settimana scorsa sono arrivate anche tre squadre di Alpini da Trento, che hanno portato allegria e hanno accelerato il ritmo dei lavori. «Una spinta imprevista e decisiva», dice Paolo. Ma la difficoltà maggiore è stata proprio costruire le competenze per edificare con materiali come la paglia e il legno, che, tranne qualche esperienza nel Nord Italia, è ancora una tecnologia oriunda. «Sembra incredibile scrivono Paolo e Fabrizio in una lettera manifesto di quest’esperienza – eppure le faglie slittate con tale violenza, portando lontano lembi di terra prima vicini, sono riuscite a far capitare l’uno affianco all’altro due mondi complementari e farli assestare in un nuovo incastro».